Il modernismo è una storia di rovine. Una successione ininterrotta di crolli e disillusioni. Alla base, c'era l'idea che qualcosa, nel mondo, nei rapporti tra le persone, nella produzione artistica, potesse davvero cambiare. O che quantomeno fosse possibile compiere un'operazione che, oggi, nella quieta onnipervasività della politica spettacolare, dell'estetica post-tutto, nell'idea che le ideologie non ci siano più, ci sembra impossibile e remota. L'idea che un'opera possa realmente rappresentare una presa di posizione critica rispetto all'esistente. Che si possa ancora militare (parola che suona strana, fuori moda) contro qualcosa o, meglio ancora, a favore di qualcosa'altro.
Owen Hatherley, blogger incallito, studioso di architettura, amante di cinema e musica, ha pubblicato un libro, Militant Modernism, che cerca di compiere un'operazione da stalker degna di Walter Benjamin: entrare nella zona proibita, reiniettare la vita dentro le rovine, seguire le traiettorie possibili di un sogno molto concreto di trasformazione sociale. La concretezza è quella del concrete, del cemento armato, quello che in francese si chiamava béton brut. Da cui il termine brutalismo, scuola architettonica inglese degli anni '50 e '60, associabile al progetto laburista di costruzione di una "nuova Gerusalemme" sulle ceneri della Seconda guerra mondiale. Questi giganteschi edifici, grigi e striati dalle colate di cemento armato, sono le mastodontiche rovine abbandonate, a volte abbattute, altre volte mal tollerate, di un'estetica che era innanzitutto una politica. Vale a dire il sogno di dar vita, attraverso le geometrie rigorose e il razionalismo estremo derivato dalle unité d'Habitation di Le Corbusier, a un Eldorado per la working class. L'idea cioè che, in una società fortemente classista come quella britannica, ci potesse essere un'estetica militante, basata sulla convidisione di spazi sociali, sull' avanguardia tecnica, sulla cura progettuale. Una redenzione socialista compiuta attraverso la forza del cemento, opposta all'estetica dei tradizionali quartieri della working class, fatti di mattoni e cortili privati.
Ora questi residui di un'altra epoca rimangno come un ammonimento, non riassorbibili nell'atmosfera post-moderna, fatta di vetro e villette. Edifici che possono sembrare brutti, che forse lo sono. La bruttezza brutale di costruzioni che volevano essere anche affermazioni politiche e che poplano un'estetica alternativa della cultura inglese (le visioni di Thamesmead in Arancia Meccanica, i paesaggi stranianti di Newcastle in Get Carter con Michael Caine, tutta l'estetica di decadimento sociale e urbano del Red Riding Quartet di David Peace).L'affascinante percorso proposto da Owen riconnette alcuni frammenti sconnessi, rimette insieme rovine, tracciando una rotta che passa attraverso i relitti devastati delle case comuni sovietiche, dei club per i lavoratori, abbandonati in uno splendore stalkeriano, fatto di umidità e marciume post industriale. Haterley segue la vicenda del modernismo sovietico (lo stesso di un film come Aelita di Protazanov) in opposizione al realismo socialista, raccontando il rapporto tra avanguardia artistica e Byt, la vita quotidiana, che avrebbe dovuto, secondo le idee di artisti e creatori come Rodchenko, Milinis, Ginzburg, Nikolaev, trasformare il genere umano. Poi ci sono le idee di ridefinizione dei rapporti tra i sessi viste attraverso i film di Makavejev e le teorie orgoniche di Wilhelm Reich. E infine il grande rimosso del nostro tempo, Bertolt Brecht, con il suo teatro fatto di distanziazioni, intervalli, sospensioni. In Brecht il famigerato Verfremdungseffekt (lo straniamento) crea le condizioni per costruire un ibrido espressivo riutilizzando, in ambito puramente teatrale, procedimenti presi dalla radio e dal cinema. E proprio il modernismo politico e militante di Brecht rappresenta una delle chiavi di lettura del libro creando connessioni con pratiche creative attuali. L'accento brechtiano sulla riappropriazione estetica dei mezzi di comunicazione ed espressione riemerge nei luoghi più impensati, ad esempio nei soundsystem giamaicani e nella produzione a basso costo di pezzi dub, negli effetti dell'estetica sonora nel "nuum", il continuum hardcore che attraversa la musica inglese degli ultimi anni (la jungle, lo uk garage, il 2 step, il grime e il dubstep). Oppure sono brechtiani gli innesti dell'estetica industriale nella cultura pop, in gruppi come i New Order. Questo modernismo per le masse permette a Hatherley di creare una connessione vertiginosa che porta in Italia. C'è stato un periodo in cui, ad esempio, Gramsci poteva parlare di proletcult, una cultura proletaria legata all'esplosione estetica del futurismo, prima che quest'ultimo venisse "fascistizzato". In un'epoca in cui ogni movimento diventa una nicchia di consumo e in cui il futurismo diventa l'occasione per creare innocui gadget da anniversario o, peggio ancora, dà il via libera ad ambigue rivalutazioni di certi periodi storici, l'idea di seguire le apparizioni di un sogno di trasformazione attraverso un secolo sembra una storia di fantasmi. E i fantasmi, com'è noto, non muoiono mai, ma ritornano a tirare i piedi di chi dorme.
di @AlunnoProserpio
Owen Hatherley, Militant Modernism, Zero Books, 2009.
blog di Owen Hatherley: http://nastybrutalistandshort.blogspot.com/
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